Quando ripenso al mio viaggio in SriLanka, la mente non può che correre veloce al suo cuore: lo splendido sito di Sigiriya.
Ecco il racconto di quell’indimenticabile giornata.
Racconto di una giornata a Sigiriya
Quel giorno, un caldo particolarmente afoso abbacinava il mio sguardo.
Non ero in SriLanka che da pochi giorni, forse ore, ma “l’isola splendente”, questo vuol dirci il suo nome, mi aveva già accolta nel suo rigoglioso grembo.
Stupita di ogni cosa, mi ero lasciata soggiogare dal trionfo della natura, che si perdeva nella bellezza di piccoli particolari. Dense piogge che ridipingevano prati e boschi di tinte lucide; scimmie che vagavano incuranti di tutto per le strade fumose di terra. Pure un elefante incrociò il mio cammino. Così grande eppure così desideroso, almeno mi sembrava, di confondersi tra le fronde, verdi come gemme.
Adagiata sul pullman per Sigiriya, la stanchezza delle ultime giornate, come sottile vetro, si frantumava sulla strada sempre più accidentata. Ancor prima dell’autentico stupore, fu quindi uno sguardo fiacco quello che per primo rivolsi alla grande montagna.
Immediatamente, mi ridestai dalla mia trasognata veglia.
Tanta la fiera imponenza di quella montagna, che si poteva avvistare sin da lontano: altèra come una Torre Eiffel che capeggia sul fondale di una Parigi traboccante di verde.
Il pullman percorreva con dolce lentezza l’antistante pianura. La bocca mi si spalancava in sorrisi di infantile stupore ed era la gioia ad ogni minuto.
Finalmente arrivammo.
Davanti a me, Sigiriya, cuore martellante dello SriLanka.
Immersa in quel mondo dove erano i colori a dare forma alle cose, quasi non mi accorsi che stavo entrando nel vivo del sito archeologico. Vivo lo era allora, così come lo era sempre stato: un palazzo, un’inespugnabile fortezza.
Si dice sia stato abitato sin dalla Preistoria. Poi, più di 2.000 anni fa, divenne monastero. O forse palazzo reale. Venne riscoperto solo nel 1907, da John Still, esploratore britannico.
Ai piedi della collina, ci si sentiva del tutto sopraffatti da quei, in realtà pochi, 370 metri d’altezza.
Le scale di roccia si inerpicavano veloci verso la cima, sfuggenti come il segreto che sembravano custodire. Passo dopo passo, si disvelavano allo sguardo porzioni sempre più grandi di cielo e foresta.
Il sole iniziava a trascolorare dietro nuvole sempre più spesse.
Quando raggiunsi la cima, un mare perlaceo aveva disciolto il verde brillante dei boschi.
Fu questione di un istante.
Io e i pochi turisti appena giunti davanti alla colossale Porta dei Leoni, in un attimo, fummo travolti.
L’irruenza della tempesta ci colse impreparati. Gocce di pioggia scrosciante, martellanti come pezzi di un cielo in caduta si precipitarono su di noi.
Fu paura. Di scivolare, di cadere, di non vedere. Fu panico. Di non tornare più giù. Di non sapere come fare.
E la pioggia seguitava a cadere. Piccoli ruscelli di fango si addensavano ai nostri piedi.
Fu emozione. Il cuore dello SriLanka, Sigiriya, stava battendo. Inarrestabile, dirompente, vivo.
E a quel punto, non importò più. La stanchezza del viaggio e la vertigine che mi stava assalendo nel guardare in basso.
Quel cuore batteva. E batteva…
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