Mont Passot, Madagascar.
Dicembre 2016.
Uno dei primi viaggi da sola, eppure, dopo pochi giorni, anche quella solitudine sembrava non bastare. Avevo fame di tempo: per sedimentare, per lasciare che sensazioni e ricordi decantassero come vini squisiti.
Turbine era per me il Madagascar: il contrasto di colori esuberanti, che svelavano un mondo discreto, affollava la mia mente di agitata contraddizione.
Credo che fosse l’ultimo giorno prima della partenza. Avevo affittato un taxi, sicuramente guidare da soli non è una buona idea in Madagascar, e, anziché Hellville, cittadina che, nonostante il nome lo evochi, non ha nulla di infernale se non, forse, il traffico polveroso, avevo optato per Mont Passot.
Il Madagascar è luogo di primati e, generosamente, fu luogo anche di tante mie prime esperienze. Il camaleonte più piccolo del mondo e la tartaruga più grande; il primo lemure e la prima mantide; la vista dell’Eden quando sbarcai sull’abbacinante Nosy Iranja. Fu anche luogo dove per la prima volta percepii avvisaglie del turismo più nascosto e deprecabile e la colpa che mi ghermì, a causa del mondo da cui provengo, mi appesantisce il passo tuttora.
Fu però a Mont Passot che il mio cuore si spalancò d’infinito, lasciandomi ebbra e misera al tempo stesso.
Era pomeriggio inoltrato quando il taxi iniziò a percorrere la strada che serpeggiava verso il monte. Alla mia destra, pendici di vulcani ora spenti rilucevano dell’acqua che nutriva l’isola. Il verde dei boschi cedeva il passo ad una rapida sera che se ne appropriava con voracia, per custodirne l’inebbriante rigoglio fino all’indomani. E la sonora meraviglia dei visitatori che, stupefatti, contemplavano l’isola di Nosy Be tuffarsi nell’oceano, si trasformava alla mie orecchie in un allegro brusio.
Eravamo finalmente giunti a Mont Passot e, ancora non lo sapevo, di lì a poco lo spettacolo avrebbe avuto inizio.
Mi avventurai lungo il sentiero che conduceva alla cima. Nessuna memoria di dove poggiassero i miei piedi, lo sguardo era catalizzato dalla visione che si stava allargando.
Ma non era ancora il tempo.
Solo qualche giorno fa, la simpatica vista di alcune galline che trovavano rifugio tra i rami di un albero aveva immediatamente evocato la stessa scena a Mont Passot. Galline certamente più piccole e agili, ma che in quel momento, tra i rami d’alberi che s’intrecciavano nel cielo, erano testimoni della grandezza.
Arrivai in cima. Una grande terrazza si spalancava sull’isola e sul mare. Il sole sembrava ancora troppo alto e il cielo sembrava ancora confuso, in bilico tra sfumature d’azzurro e il viola vellutato della notte. Nulla poteva prepararmi.
In un baleno, accadde. I miei occhi increduli bevvero d’un sorso l’aggraziato tuffo del sole nell’oceano. Un battito di ciglia che sconquassò il mio mondo di bellezza.
All’angolo della mia vista, verso sud, i delicati contorni del Madagascar si velavano sotto un cielo squarciato da lampi e tempesta.
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bellissimo racconto…mi sembra di vedere il camaleonte piccolo ed impaurito e la tartaruga sonnecchiante!