Kotodama, un’introduzione allo “spirito della parola”

Uno dei concetti più vaghi e inafferrabili che domina la cultura giapponese è quello di kotodama, lo ‘spirito della parola‘.

Ci piacerebbe poterlo riassumere in poche righe. Per la verità, il kotodama è qualcosa che permea la cultura, ma non fa parte di tutti i Giapponesi allo stesso modo e in egual misura.

Nell’articolo di oggi, in particolare, racconteremo di come il kotodama è stato a sua volta raccontato. Non soltanto da scrittori giapponesi, ma anche di come è stato traslato in Europa.

Scopriremo, infatti, che molto sarà da aggiungere, alla canonica definizione di “spirito della parola”.

Scopriamo insieme perché.


Ōe Kenzaburō e il world language

Nel suo discorso di introduzione alla Kyoto Conference on Japan Studies del 1994, lo scrittore Ōe Kenzaburō fece riferimento al suo desiderio di creazione di un “world language(世界言語, sekai gengō). Egli voleva intendere una “letteratura universale” facilmente comprensibile da chiunque, al di là del suo background linguistico ed etnico.

Naturalmente ciò era utopia, ed era noto allo scrittore stesso.

In particolare, la lingua giapponese è sempre stata vista, dai Giapponesi in primo luogo, come contenente qualcosa di indefinibile, intraducibile e incomunicabile al resto del mondo. Essa quindi sembra essere del tutto diversa da qualunque altra.

Come si può ben capire, questa convizione ha portato nei secoli, e in particolar modo dalla fine dell’Ottocento, allo sviluppo e all’estremizzazione di determinati concetti, come vedremo di seguito, ma ci è utile come punto di partenza per la comprensione del significato del kotodama.


Cosa si intende per kotodama

Quando diciamo che il concetto è quantomai indefinibile, non intendiamo certamente dire che fior fiore di studiosi non vi ci siano approcciati e non siano anche giunti a solide conclusioni.

Permangono però numerosi dubbi e perplessità.

Vi dirò subito che c’è molto di più oltre al significato che le viene normalmente attribuito.

Definizione: si riferisce alla credenza giapponese secondo la quale poteri mistici risiedono nelle parole e nei nomi. Alcune possibili traduzioni italiane sono “anima del linguaggio”, “spirito del linguaggio”, “potere del linguaggio”, “parola potente”, “parola magica” e “suono sacro”. Il concetto presuppone che i suoni possano influire magicamente sugli oggetti e che l’utilizzo di questa parola rituale possa ripercuotersi su ambiente circostante, corpo, mente e anima.

In effetti, questo trafiletto compare quando si imposta una rapida ricerca su Google (fonte: Wikipedia).

Noi, però, ci proponiamo di andare oltre a queste semplici righe facendo un salto…. Indietro nel tempo? penserai tu.

No, non subito almeno. Andiamo, anzi… Restiamo in Europa!


La definizione attraverso le parole di Shōichi Watanabe

Uno dei modi più pittoreschi, però comprensibili, per addentrarci nella sostanza di tale concetto è quello presentato dal Professor Shōichi Watanabe (1930-2017), dell’Università di Sophia (situata a Tokyo, ed una delle più prestigiose in Giappone).

Figura assai controversa per le sue posizioni estremamente conservative nell’ambito della storia del Giappone e dei Giapponesi (che però non sono oggetto di questa trattazione), egli fu anche un esperto conoscitore della lingua tedesca e grande filologo.

Egli fu anche forse uno dei primi ad apportare contributi allo studio della filologia inglese in Giappone. Quest’ultimo punto sarà d’aiuto alla comprensione di quanto segue.

Nel 1974, il Professor Watanabe pubblicò, nel mensile Shokun, un articolo presentato che venne poi tradotto anche in inglese: è da questa traduzione che desideriamo partire con l’analisi.

L’argomento in discussione è la differenza tra “lingue vive” e “lingue morte”, in un’accezione piuttosto diversa rispetto a quella che siamo usi attribuire.

Una richiesta, per favore: si legga fino alla fine!

In his opinion, German, for instance, is a “living” language, for it has never ceased to be spoken by the Germans from time immemorial.
Children today have inherited the language from their parents, who received it from their own parents, and so on.
In other words, the continuity of the German language has never been interrupted since the origin of mankind, which may date back to tens of hundreds of, or tens of thousands of, years, or even to the geological age… In contrast, for the new Latins who speak “dead” languages, there was a period when this linkage was arbitrarily decided upon.

Estratto dall’articolo di Watanabe S. tradotto in inglese sul Japan Echo (1:2:9-10, 1974)

Perché citiamo questo passaggio e facciamo menzione della lingua tedesca? Ora ti sarà certamente più chiaro con gli esempi che seguono.


Capire il kotodama attraverso esempi europei

Watanabe, in effetti, continua il suo articolo portando l’esempio di due parole che, secondo i dizionari di allora, avevano il medesimo significato: Menschenfreundlichkeit (tedesco) e philanthropie (francese).

La parola tedesca è formata da Menschen (uomo) + Freund (amico). Ad un parlante di lingua tedesca questa parola e quanto ad essa collegato, il concetto di “trattare le persone come se fossero propri amici”, arrivano istantaneamente (si badi che non stiamo parlando di significato della parola).

Dall’altro lato, invece, philos (amicizia) e anthropos (uomo) sono di origine greca: per tale ragione il loro suono e significato non sono immediati per un orecchio francese.

Perché avviene questo?

Watanabe lo spiega con il fatto che da sempre in Germania si sia usata la lingua tedesca. Essa ha subito ovvie modifiche nel tempo, ma è rimasta la stessa lingua.

Pertanto, ogni parola riesce a connettersi direttamente al cuore di chi ascolta. Non ci sono passaggi intermedi.

Philanthropie, invece, non ha nessuno, o pochissimo, potere evocativo per un francese. E comunque, qualsiasi potere possa avere risiederebbe in un passaggio intermedio, certamente non diretto.

Affinché sia maggiormente chiaro, l’articolo prosegue con un altro brevissimo esempio, sempre preso dalla lingua tedesca.

Nietzsche scrisse Zarathustra usando esclusivamente parole di origine tedesca. Per un nativo di quella tale lingua, senz’altro il suo lavoro risulterà poetico, e gli comunicherà immagini ed emozioni estremamente potenti, che non sarebbero possibili né per un lettore di un’altra lingua né, probabilmente in una traduzione, per quanto ben fatta.

Ecco, dunque, secondo lo studioso, quale sia la differenza tra “lingue vive” e “lingue morte”.


Gli esempi giapponesi

Ora torniamo però al nostro Giappone.

Come vediamo di seguito, il nostro Professor Watanabe continua il suo articolo paragonando una poesia tratta da una delle più celebri raccolte della letteratura giapponese, il Man’yōshū (circa VIII secolo), con un passo del Riccardo II di Shakespeare.

kotodama manyoshu leggimee
Traduzione in inglese del waka tratto dal Man’yōshū a cura di by J. Tsunashima, citato nel Japan Echo (1:2:16, 1974)
kotodama leggimee
Passaggio tratto dal Riccardo II, Atto 2, Scena 1

Lungi da volerne compararne la bellezza o il significato, quello che però si evince dalla traduzione in inglese della poesia del Man’yōshū, rispetto al brano di Shakespeare, è certamente l’uso di un linguaggio piuttosto semplice, addirittura “puerile” venne definito da Miller R., nel suo articolo The “Spirit” of the Japanese Language. Da questo confronto, argomentò Miller, l’immensità della poesia di Shakespeare risulta ovviamente schiacciante.

Il punto, però, non è questo, come avrai ormai capito.

L’originale giapponese, infatti, ha un impatto potentissimo, non solo uditivo, ma anche emotivo, sull’animo degli abitanti del Paese del Sol Levante.

Per un Giapponese, le parole di quella poesia, per quanto possano apparire semplici nella traduzione, non lo sono affatto. Esse risuonano e riconducono a concetti, sensazioni, tradizioni, emozioni del passato. Un sostrato culturale comune, per così dire.

In fin dei conti, quindi, come possiamo spiegare questo concetto?

Ricapitolando quanto detto sinora, parte del significato di questo concetto è proprio il grande, immenso potere che ha la parola, un potere di suggestione che non si riesce a tradurre né a trasmettere allo stesso modo.

E tutto ciò, sembra frutto della convinzione che le parole giapponesi non siano mai cambiate nel tempo e, quindi, echeggianti suoni primitivi.

Tra i molti dubbi che possono sorgere leggendo quest’articolo, almeno due:

  • Si può ritenere che i Giapponesi (o almeno il Professor Watanabe) ritengano la loro lingua superiore alle altre?
  • Leggendo la differenza tra “lingue vive” e “lingue morte” di Watanabe, sembra che la lingua giapponese (e nell’esempio, quella tedesca) siano lingue vive poiché non hanno mai subito influenze esterne e si sono mantenute “pure” nel tempo, conservando suoni primitivi. Da sempre, però, si sa come il linguaggio sia in continua evoluzione. Negli articoli precedenti, abbiamo anche visto come moltissime parole cinesi siano entrate a far parte del patrimonio linguistico giapponese. Non è insita una contraddizione in tutto ciò?

Naturalmente sappiamo bene quali siano le risposte a queste domande. La questione, infatti, è che questo concetto, o meglio, le sue molteplici e fallaci interpretazioni, come spesso accade, hanno avuto conseguenze drastiche ed impattanti nel secolo scorso.

D’altro canto, la ripresa del concetto di kotodama avvenne nell’ambito del nihonjiron (日本人論, “teorie sui Giapponesi”), un insieme di saggi, pubblicazioni e articoli atti a dimostrare la particolarità e la purezza del popolo giapponese rispetto a tutti gli altri. Non serve sviscerare qui le possibili implicazioni di tali teorie.

Lo stesso Shōichi Watanabe, come accennammo all’inizio dell’articolo, non fu certo esponente di un pensiero progressista ed è quindi necessario ricollocare le sue affermazioni nel quadro di allora.

In ogni caso, si consideri che l’obiettivo di quest’articolo è quello di un’introduzione ad un tema che può sembrare distante, attraverso esempi molto più vicini a noi.

Nei prossimi articoli, rifletteremo sulla relazione che sussiste tra il suono e le parole nella lingua giapponese ed anche sul perché e come tale concetto di kotodama sia divenuto estremamente importante nel Novecento.


Così tanto c’è ancora da dire e spiegare, però mi auguro che questo concetto sia divenuto in qualche modo un po’ più afferrabile e meno vago di quanto non fosse al principio di quest’articolo.


FONTI:

  • Poulton, Cody M. (1994). Words With Power: ”Kotodama” Reconsidered. KYOTO CONFERENCE ON JAPANESE STUDIES 1994 III 186-198 (articolo consultato il 14/06/2021)
  • Sukehiro, H. (1981). In Defense of the “Spirit” of the Japanese Language. Journal of Japanese Studies, 7(2), 393-402 (articolo consultato il 25/04/2021).
  • Miller, R. (1977). The “Spirit” of the Japanese Language. Journal of Japanese Studies, 3(2), 251-298 (articolo consultato il 25/04/2021).
  • Kotodama, Wikipedia (articolo consultato il 25/04/2021).

Elisa Borgato

Lavoro come Web Editor specializzata in Viaggi & Turismo, ma qui sono semplicemente la 'Cantastorie del Giappone'. Scrivo da sempre. Amo la natura, viaggiare in solitaria, la spontaneità e gli imprevisti (anche se quest'ultimi non sempre o, almeno, non subito!). Sono laureata in Lingue e Culture dell'Asia Orientale... Sì, ho studiato il giapponese, e dal 2021 ho deciso di trasformare questa mia passione per l'Asia in un blog, LeggiMee. Qui scrivo del Giappone che mi più mi appassiona, ma racconto anche storie brevi e mi lascio andare all'improvvisazione!

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