Abbiamo parlato spesso di kotodama, il cosiddetto spirito della parola, ma non ne daremmo una visione completa, se non introducessimo anche il concetto di kotoage.
Questa volta, anziché partire dalla sua definizione, vi racconteremo una storia, o meglio, una parte di essa: quella dell’eroe Yamato Takeru, narrata per la prima volta nel Kojiki (qui per leggere la storia completa).
- Il Kotoage nel Kojiki: la storia del principe Yamato Takeru
- Cosa significa la parola Kotoage?
- Cos’è il Kotoage: relazione con il kotodama
- Il timore del Kotoage: gli esempi in poesia
Il Kotoage nel Kojiki: la storia del principe Yamato Takeru
Si narra che Yamato Takeru fosse il figlio del 13° sovrano del Giappone, l’imperatore Keikō (regno: circa 71-130 d.C.).
Temendo il suo temperamento violento, aveva infatti ucciso il fratello per una banale mancanza di rispetto, il padre decise di tenerlo lontano dalla corte.
La violenza e la dedizione che lo avevano spinto a compiere il gesto fratricida, gli permisero di uscire vincitore da numerose eroiche avventure (il nome Takeru sembra significhi “che eccelle”, mentre Yamato, come sappiamo, identifica il Giappone stesso).
Molte di queste battaglie, come quella descritta dalla stampa qui riportata, vennero vinte con sotterfugi e inganni.
Numerosi successi si susseguirono (leggi qui l’epopea completa), finché un giorno si imbattè in un bianco cinghiale ai piedi del Monte Ibuki.
Yamato Takeru pronunciò un kotoage: “Questo cinghiale dev’essere il messaggero del dio della montagna travestito. Non devo ucciderlo ora: lo farò al mio ritorno“.
Salendo sul Monte Ibuki, però, incontrò una tempesta di grandine di una tale violenza che lo fece ammalare ed uscire di senno, tanto che ne morì.
Questo successe perché il cinghiale non era il messaggero del dio, ma il dio stesso, e il principe Takeru pronunciò il kotoage a dispetto di ciò, provocando non solo l’inefficacia del kotoage stesso, ma anche l’ira del dio.
Che siano kotoage positivi o negativi, è sempre bene non pronunciarli.
Ma cos’è il kotoage e come si collega al concetto di kotodama? Lo scopriamo nei prossimi paragrafi.
Cosa significa la parola Kotoage?
Come per il kotodama, anche la storia del concetto di kotoage, e l’uso che n’è stato fatto attraverso i secoli, è variato assai, ma cerchiamo di andare con ordine.
Innanzitutto kotoage è scritto come segue: 言挙げ. La prima parte, koto, è la medesima di kotodama e dunque significa “parola”; la seconda parte, age, significa “elevare”, “tirare su”. Dunque, letteralmente, “elevare le parole”.
Nel Nihonji (il secondo libro della letteratura giapponese, terminato nel 720), kotoage viene scritto con diverse combinazioni di ideogrammi cinesi:
- Hsing + Yen, dal significato di “elevare, innalzare la parola”.
- Yang + Yen, dal significato di “sfoggiare, mettere in mostra la parola”.
- Kao + Yen, dal significato di “parola elevata”. Usato come composto, in Cinese suggerisce anche il concetto di “ampolloso”, che è stata tradotto anche come “scaltro”, “subdolo”. Si tenga quest’ultima accezione solo per l’idea di ambiguità che trasmette, in quanto sembra sia stato un uso derivato da un tentativo di emulazione della lingua cinese.
Nella storia di Yamato Takeru, raccontata anche nel Nihonji, vi è un passaggio che potrebbe aiutare a spiegare meglio quest’ultima versione.
Quando l’imperatore Keikō ordinò al figlio di conquistare i ribelli ad est, gli disse:
“Usando il kotoage, tu potrai sottomettere le violente divinità, e spiegando le tue forze armate, cacciare gli spiriti maligni” (traduzione in italiano dalla traduzione in inglese del Nihonji a cura di W. G. Aston).
Per tradurre kotoage, Aston utilizzò l’aggettivo “cunning”, ovvero “scaltro”, “subdolo”.
Questo passaggio sarà essenziale alla comprensione della natura del kotoage, che illustriamo nelle prossime righe.
Cos’è il Kotoage: relazione con il kotodama
Sebbene diverse siano state le interpretazioni negli studi portati avanti nell’ultimo secolo, il kotoage è strettamente correlato ad un rituale socio-linguistico ed è basato sul kotodama, ovvero sull’equivalenza tra “la parola” ed “il fatto” (nell’ultimo articolo, abbiamo detto KOTO “cosa” = KOTO “parola”, ricordate?).
Dunque, pronunciare il nome di quanto desiderato (che sia un ritorno a casa indenni o un acquazzone), seguendo una ritualità precisa (kotoage) che attivi le necessarie forze mistiche, porterà il realizzarsi della cosa stessa.
Se riprendiamo il significato letterale di kotoage visto poc’anzi, possiamo asserire che attraverso il rituale è la “parola/cosa” che viene “elevata” da una condizione “terrena” ad una condizione “soprannaturale”.
In quale parte del concetto di kododama si instilla dunque quello di kotoage?
Kotodama e Kotoage
Secondo il modello proposto da Hara, e che vediamo nella prossima figura, il kotodama si sviluppa in tre “atti”.
La prima parte è interna alla persona che desidera una determinata cosa e valuta se verbalizzarla o meno. Qualora decidesse di sì, il messaggio verrebbe esternato (kotoage) e, infine, vi sarebbe la realizzazione (illusione) di quanto desiderato.
Da questo schema, notiamo dunque l’importanza rivestita dal soggetto A, che può stabilire o meno se procedere. Qual è il timore? Un po’ lo abbiamo già anticipato, ma cerchiamo di approfondire con degli esempi.
Il timore del Kotoage: gli esempi in poesia
Riportiamo di seguito due estratti di poesie tratte dal Man’yōshū (la più antica raccolta di poesie giapponesi):
“The Rice-abounding Land,
Of reed plains
Being itself divine
Is a land where kotoage is not done“.
“I believe you to be a valiant man who
Without performing kotoage
Will conquer and then return
Even though they be an army
Ten-thousand strong”.
Da questi estratti, non solo sembra che in Giappone il kotoage non sia praticato ma, come sembrerebbe dal secondo esempio, che sia una virtù non farlo.
In effetti, molteplici sono i riferimenti alla pratica del kotoage e, molto spesso hanno una connotazione negativa.
Come abbiamo visto poco nell’immagine precedente, estremamente importante è la parte in cui un individuo sceglie se procedere. Sua facoltà sarebbe quella di andare avanti, ma anche di non farlo, onde evitare ripercussioni (ricordate com’è finita la storia di Yamato Takeru?).
Come mai? Le parole che vengono pronunciate nel caso della pratica del kotoage, non sono parole qualsiasi. Non è nemmeno qualsiasi il modo in cui esse vengono pronunciate. Sono parole che possono recare benessere, tanto quanto danno. Esse hanno a che fare con i taboo, un concetto che esiste in diverse culture, non solo quella giapponese.
Pronunciare un taboo significa liberarne il potere (kotodama), e questo può recare danno.
Nel prossimo articolo, torneremo a parlare di kotodama e kotoage, parlando di quanto i taboo abbiano condizionato e condizionino tuttora il modo di comunicare del popolo del Sol Levante.
Dimmi cosa ne pensi se ti va, se hai dubbi o curiosità e convidici!
FONTI:
- Konishi Jin’ichi (1984), A History of Japanese Literature: The Archaic and Ancient Ages. Curato da Earl Roy Miner e tradotto da Nicholas Teele. Edito da Princeton University Press (2017).
- Miller, R. (1977). The “Spirit” of the Japanese Language. Journal of Japanese Studies, 3(2), 251-298 (consultato 7/6/2021).
- Hara, K. (2001). THE WORD “IS” THE THING: The “Kotodama” Belief in Japanese Communication. ETC: A Review of General Semantics, 58(3), 279-291 (consultato 7/6/2021).
- POULTON Cody M. (1994). Words With Power: ”Kotodama” Reconsidered. KYOTO CONFERENCE ON JAPANESE STUDIES 1994 III (consultato 7/6/2021).
IMMAGINI:
- Yoshitoshi (1886), Public domain, via Wikimedia Commons
- The kotodama belief model – tratto da Hara, K. (2001). THE WORD “IS” THE THING: The “Kotodama” Belief in Japanese Communication. ETC: A Review of General Semantics, 58(3), 279-291 (consultato 7/6/2021).